di Bruno Zucchermaglio


Lucchino si guardò allo specchio e, ancora una volta, pensò a come sarebbe potuto essere.

Era il giorno del suo ventiseiesimo compleanno e Lucchino non aveva mai riso.

Come era sua abitudine fare, si guardò allo specchio e cercò di far muovere le labbra così come aveva visto fare tante volte in tv, dai suoi amici, dai suoi familiari.

Ma non gli riusciva.

Non che gli importasse più di tanto, a lui, di ridere.

Ma visto che spesso, amici e parenti, gli ripetevano che era solamente una questione psicologica, una fissazione, e che valeva la pena di provare, Lucchino, anche il giorno del suo ventiseiesimo compleanno, provò a ridere.



Ma non ci riuscì.



Tornò nella sua stanza, appoggiò sullo scaffale di sinistra (quello pieno di videocassette di film comici che ad ogni compleanno gli regalavano per farlo ridere) l’ultimo regalo di sua sorella: un libretto di fumetti. Lo aveva già letto tutto ma, a differenza di quello che diceva la sorella, a lui non aveva fatto ridere.

Si sdraiò sul lettone a due piazze ed attese pazientemente le nove di sera. Era quella l’ora in cui gli amici di Lucchino sarebbero venuti a casa sua per festeggiare il suo ventiseiesimo compleanno.



La solita festa.



Uguale come tutti gli anni.

Uguale da quasi ventisei anni.

Lui compiva gli anni e gli amici sfilavano fino a casa sua per portargli i regali e per mangiare torta, biscotti, patatine, pop corn, tartine guarnite con l’uovo sodo, salatini, pasticcini, pizzette, spiedini, i panini neri guarniti con ricotta pomodoro prezzemolo (che lui però odiava e toglieva sempre perché assomiglia alla cicuta e non si sa mai che qualcuno non si sbagli!) e per bere aranciata, coca cola (che lui detestava ma era sicuro che un compleanno senza coca cola non sarebbe piaciuto a nessuno) e limonata, acqua minerale (che non c’entra niente ma lui ne comprava sempre una bottiglia perché ci si poteva sciacquare la bocca da tutte le altre cibarie e bevande) e succo di pompelmo, tropical, multivitaminic.

Il suo sogno, tutto segreto, tutto suo, era quello di far trovare sulla tavola imbandita del suo compleanno una bottiglia di succo di carciofo, con tanto di etichetta e marchio registrato.



Ma era impossibile.



Nessuno produceva succo di carciofo e Lucchino ogni anno faceva di tutto per immaginare che faccia avrebbero fatto i suoi amici di fronte a quella bottiglia e, soprattutto, chi ne avrebbe bevuto e chi no. Ma forse – pensava – tutti ne avrebbero assaggiato almeno un goccio. I suoi amici si distinguevano, infatti, perché della vita volevano provare tutto, almeno tutto ciò fosse loro possibile. Anche per questo risultava inconcepibile, a loro, che Lucchino non ridesse mai e mai avesse riso, perché tutto andava almeno provato, assaggiato, saggiato, e il fatto che Lucchino non avesse mai provato la sensazione del riso, lo rendeva, ai loro occhi, incompleto.

Sì, si sentiva così. Incompleto.

Pur non avendo alcun interesse a provare la sensazione del riso.

Non rideva e basta.

È vero, sì, che era curioso, a volte curiosissimo di sapere che cosa si prova quando si ride, quando ci si scompiscia dalle risate. Ma dato che lui non rideva e non ne sentiva il bisogno, fondamentalmente non gliene fregava niente.

E si divertiva (eh, sì, anche Lucchino si divertiva, ma sempre senza ridere) quando osservava la marea di comici televisivi che facevano di tutto, con scarsi risultati, per far ridere il loro pubblico. E non provava nessuna invidia quando vedeva amici e familiari, di fronte alla tv, ridere per inerzia, poco convinti, meccanicamente, spinti da automatismi e reazioni pavloviane. Ma loro si ostinavano. E continuavano a ridere. A guardare la tv, a raccontarsi barzellette, a farsi scherzi, a riferirsi aneddoti e figuracce, a ridere, ridere e sorridere ed a piangere dal ridere.



Ma la sensazione più bella, bella ed al contempo angosciante, Lucchino la provava al cinema. Decine di persone che ridevano, uno scroscio di risate che lo circondava, un ammasso di suoni irregolari che nell’insieme formavano un suono omogeneo e quasi regolare, che scandiva un tempo sradicato da quello dell’orologio. Un tempo ignoto, orchestrato da un magico gerarca che Lucchino immaginava appeso in alto sopra lo schermo e che con la mano ordinava quand’era il momento di ridere, tutti insieme, pochi esclusi.

Era una sensazione fantastica: tutti ridevano e lui serio, immobile, labbra chiuse, solo, solissimo.

Ma era il giorno del suo compleanno, del suo ventiseiesimo compleanno, e Lucchino non poteva pensare alla solitudine.

Tutto era già pronto in tavola, gli amici stavano per arrivare, e Lucchino doveva prepararsi per accoglierli.



Con un sorriso?

No. Gli era impossibile. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto. Ma non voleva. Doveva prepararsi ad accoglierli e basta.

Anche quest’anno la tavola della sua casa era pronta ad accogliere i suoi amici.

E, anche quest’anno, Lucchino si preparava a scartare i regali.



Lo sapeva: anche quest’anno i suoi amici erano in ritardo. Lo sapeva, sì, ma come tutti gli anni Lucchino iniziava a prepararsi dieci, quindici minuti prima delle nove. Non che si preparasse chissà come. Lucchino, infatti, non si cambiava mai d’abito, quando doveva uscire, andare a teatro, al cinema, ad una festa, ad un esame o quando ospitava amici a casa sua. Gli abiti che indossava erano più o meno sempre gli stessi. Non che fosse trasandato o sporco, semplicemente si vestiva ogni giorno senza curarsi degli abbinamenti dei colori, dell’eleganza o meno di ciò che indossava, della piega o non piega dei pantaloni, della camicia.

Soprattutto, non si curava di indossare vestiti particolari per occasioni particolari.

Dunque i preparativi nell’attesa dei suoi amici consistevano in preparativi psicologici. Cercava di immaginare come avrebbe aperto la porta, come si sarebbero salutati, che faccia avrebbe fatto lui, ma soprattutto quella che avrebbero fatto gli altri, visto che le sue, di espressioni, non erano mai molto variabili. È per questo che il ritardo dei suoi amici – solitamente una quindicina di minuti – lo innervosiva, perché in tutto quel tempo Lucchino correva con la sua immaginazione e si preparava ad accoglierli con un sorriso interno.

Non poteva sorridere veramente, per cui cercava di farlo, almeno in queste occasioni, con gli occhi. Cercava di trasmettere la sua disponibilità, la sua gioia di vederli, finalmente. Era uno sforzo non da poco, per lui, ma almeno in occasione del suo compleanno cercava sempre di sorridere almeno col corpo, con le parole. In fin dei conti – pensava – loro vengono qui a portarmi dei regali ed il minimo che possa fare è di accoglierli con gli occhi sorridenti.



A tutto questo pensava nei soliti quindici minuti di ritardo dei suoi amici, ed ogni volta si riprometteva di rilassarsi, di non continuare a guardare dalla finestra per vedere se arrivavano, di mettersi a fare qualcosa per ingannare il tempo, per non sentire il peso dell’attesa.



Ma gli riusciva difficile.



Quando le lancette di uno dei suoi tre orologi si avvicinavano alla figura delle ore nove, quando la più lunga iniziava, solitaria, il suo cammino verso l’alto per andare a disegnare, con la più corta, quell’angolo retto che indicava “le nove” – Lucchino iniziava ad impazientirsi.

Anche stavolta, dunque, l’attesa fu lunga e nervosa, ed anche stavolta Lucchino continuava a pensare che quella sarebbe stata l’ultima volta che invitava gli amici a casa sua.



La festa era, come al solito, una festa.

Tutti mangiavano, bevevano, chiacchieravano, ridevano e sorridevano e, tutti, avevano portato un regalo che avevano disinvoltamente appoggiato a terra vicino all’attaccapanni. E, come sempre, Lucchino doveva, pure lui disinvoltamente, ignorare quei regali, far finta di non averli visti, parlare con la persona che si toglieva il cappotto cercando di guardarla in faccia il più possibile, mentre la coda dell’occhio inevitabilmente cadeva sul pacco che veniva accantonato. Nelle prime ore della festa quei pacchi restavano lì, solitari ed ignorati da tutti, tranne da quelli che dovevano aggiungere le loro firme sui biglietti d’auguri. Spesso, infatti, i regali venivano fatti in gruppo e c’era sempre qualcuno che doveva aggiungere la propria firma. Anche questa operazione – quella della firma dei biglietti – veniva apparentemente ignorata da tutti, per quanto non di rado capitasse che il corridoio fosse pieno di gente intenta a fare firme, mentre in sala si ritrovavano in quattro gatti. Ma era una tradizione consolidata, ed ogni anno veniva rispettata con un automatismo tale da impedire a chiunque di pensarci, di osare il benché minimo cambiamento.



I regali erano belli, come sempre.

Anche per il suo ventiseiesimo compleanno, Lucchino ricevette dei bei regali. Meno belli, per lui, erano i biglietti d’auguri, perché come al solito rimandavano a risate e sganasciate che Lucchino non avrebbe mai fatto, ma che nemmeno i suoi amici, in realtà, facevano veramente. Le risate che seguivano la lettura del biglietto prestampato erano sempre automatiche e poco convinte, le stesse che sentiva fare di fronte ai varietà televisivi. Non provava dunque alcuna invidia sentendo quelle risate, ma ciononostante si innervosiva nel vedere come ogni anno si ripresentassero quei biglietti, come gli altri fossero insensibili al fatto che esisteva anche qualcuno – lui – che non rideva, e che non aveva nemmeno intenzione dei farlo. Ma, del resto, non poteva neanche pretendere che gli regalassero dei biglietti di condoglianze! Così Luccchino, ogni anno, lasciava correre e nascondeva i biglietti sotto montagne di vecchi quaderni e diari per evitare il più possibile di ritrovarli.



Fra tutti i regali ricevuti, Lucchino ne apprezzò uno, in particolare: un maglione di colore verde scuro con delle striature azzurrognole che mettevano in risalto i suoi occhi.

Questi ultimi erano infatti azzurri, d’un azzurro non proprio celeste ma soprattutto ceruleo, e Lucchino ne andava fiero.

Se per tutto quanto il resto relativo al suo corpo, Lucchino non riteneva di avere nulla di particolarmente bello o interessante, gli occhi erano per lui lo specchio del suo modo di essere, la porta di ingresso e d’uscita del suo sé, del suo essere se stesso, e il fatto che fossero d’un azzurro tendente al ceruleo gli dava un sensazione di apertura e di libertà che secondo Lucchino era peculiare di quella tonalità di colore.



Bruno Zucchermaglio


© Bruno Zucchermaglio


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